Sulla formazione e le lotte a venire

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Il mondo della formazione nel suo complesso viene sempre più adeguato alle logiche neoliberiste che lo vedono come dispositivo di disciplinamento di una forza lavoro precaria, ed in cui la produzione dei saperi viene immediatamente inserita in circuiti di valorizzazione ed espropriazione. Il cervello-macchina diviene il fulcro del percorso formativo, per strutturare generazioni in grado di mettere a lavoro il proprio strumento produttivo come un hardware. Si apre così uno scenario in cui il lavoro cognitivo si configura sempre più come apice dell’alienazione, dove la messa a valore delle capacità timiche, relazionali e affettive genera un’esistenza sempre più povera.

Negli ultimi dieci anni i governi di centro-destra e centro-sinistra hanno approvato riforme per ridefinire la funzione dell’università all’interno della società, con un progetto coordinato a livello europeo: il Bologna Process. Quest’ultimo ha significato sulla vita concreta di milioni e milioni di studenti e precari: l’implementazione di linee di inclusione differenziale nel processo formativo (3 2, proliferazione di master, dottorati, post-doc ecc..); la licealizzazione dell’università; la misurazione quantitativa del sapere, che invece è costitutivamente eccedente e irriducibile alla misura del mercato, tramite i crediti. Il Bologna Process è stata la porta attraverso la quale i rapporti precari hanno fatto il loro definitivo ingresso nel sistema formativo: l’incremento esponenziale di stage e tirocini gratuiti presso le aziende per gli studenti, i contratti come borsisti ed assegnisti, l’utilizzo estensivo di contratti a tempo, cooperative lavorative esterne, ricattabilità sul posto di lavoro.

Dietro quella che è stata definita riforma Gelmini, si legge con evidenza un disegno delle elité italiane di dismissione strategica dell’università, in una evidente combutta con l’ormai famigerato “Progetto Italia” di Marchionne, che detta anche l’agenda politica del Governo. La visione proposta dal super-manager della Fiat come exit strategy dalla crisi è chiara: una rinnovata competitività internazionale pagata da studenti, lavoratori e migranti. Questo comporta un abbassamento generalizzato dei livelli salariali ed un aumento della produttività (leggi: meno diritti, più lavoro; più disciplina, meno salario). Si può trasporre questo modello in maniera pressoché lineare sull’idea di università prefigurata dai vari livelli di governance (da quello ministeriale a quello nei singoli atenei). Passando per uno scimmiottamento del modello americano, basato sul meccanismo del debito coperto dall’ideologia meritocratica, si cerca di creare un’università di serie A/d’elité ed una di serie B. In questo piano i rettori stanno giocando la loro partita, costituendosi in associazioni come la Crui e l’Aquis per strappare qualche fondo in più per i rispettivi atenei, nella totale adesione al progetto strategico di riforma.

Un’università con una rigida selezione di classe tramite una gerarchizzazione economica, numeri chiusi e barriere d’accesso: questo è ciò verso cui stiamo andando. Forse da un lato le infinitesimali e favoreggiate “eccellenze” emerse da questo processo selettivo acquisteranno qualche poltrona al tavolo delle elitè globali; sicuramente la stragrande maggioranza degli studenti verrà sacrificata viene plasmata per sopravvivere alla terrificante vita precaria e ricattabile, che offre il capitale oggi. Nelle scuole superiori lo scenario non è certo migliore: oltre ai tagli, sono innumerevoli le iniziative governative tese a rendere sempre più rigida la dimensione della scuola come istituzione totale. Dalle classi separate per i migranti, ai corsi militari, ai simboli leghisti, al rinnovato ruolo del voto in condotta nel determinare le promozioni, ai programmi d’esame che propongono una visione edulcorata del fascismo, gli esempi sono talmente tanti che l’elenco sarebbe troppo lungo e agghiacciante per terminarlo.

La riforma Gelmini e i vari ddl di tagli e cambiamento della governance, pur essendo simboli contro i quali è stato ed è giusto esprimere rabbia e opposizione, sono in sé una semplice parzialità del problema complessivo. Oggi le soggettività non disposte a pagare questa crisi nel mondo della formazione, si muovono in un campo di battaglia dove le controparti sono una filiera che va dai rettori ai baroni, passando per i ministeri e gli interssi delle grandi aziende. La lotta attorno a questo nodo è dunque saldamente inserita in un contesto più generale, e da qui è possibile una delle risposte più forti ad un’uscita dalla crisi secondo la decisione conservatrice e reazionaria del modello Progetto Italia. E’ fondamentale immaginare un percorso di lotta di lunga durata, adeguato ai nostri tempi. Consapevoli che l’università e tutto il mondo della formazione sono già attraversate appieno dal privato e dalle logiche di mercato; che sono già teatro della precarietà e il sapere che trasmettono è già sapere-merce. E non è certo un ritorno al pubblico/statale che ci interessa o che ci salverà!

Fortunatamente questo autunno si è aperto con alcune scintille di movimento in grado di far dimenticare l’anno paludoso che ci lasciamo alle spalle. Sta emergendo un mondo della formazione che dalle culle ai laboratori di ricerca, può creare ed organizzare forme di opposizione e alterità importanti per rispondere alla crisi. I precari della scuola e gli studenti medi, la lotta e l’indisponibilità dei ricercatori universitari -pur nelle profonde ambivalenze del soggetto che l’ha agita- hanno aperto uno spazio politico importante. Uno spazio pubblico di conflitto attraverso il quale si gioca una sfida fondamentale per la connessione con le centinaia di migliaia di precari e le studenti. Trepidiamo per un’Onda a venire, unica risposta possibile per le generazioni arrivate a vivere appieno nella contemporanea modernità: un panorama desolante di precarietà e immiserimento che tocca tutta l’esistenza, dai saperi alla vita quotidiana. Questo lo scenario che viviamo dopo anni di retoriche false e ipocrite da parte di tutti i partiti, le istituzioni e gran parte dei sindacati. Da qui la necessità di creare contro-cooperazione, lotte e coscienza dei rapporti di sfruttamento; nella capacità di vivere il proprio essere lavoro vivo nella società come sorgente di ribellione e non come vittimismo o disperazione. Se il conflitto attorno al nodo della formazione è sempre proseguito tra vie carsiche e ondate, da questo autunno miriamo verso una grande mareggiata, in grado di fare un passo in più e raggiungere forme di vittoria. A livello istituzionale la condivisione verso le attuali strategie di riforma è pressoché totale, ma bisogna essere coscienti che la partita non si gioca attorno al passaggio o meno della riforma in parlamento: questo è il tempo dell’attacco, non c’è nulla da difendere ma tutto da conquistare. Inoltre l’elemento della generalizzazione va conquistato a partire da una concezione in grado di percepirsi come soggetto oltre sé stesso, che si pone di fronte alla crisi e vive la formazione come bene comune, nel senso di motore verso la riappropriazione e la creazione di alternativa. E’ il tempo di iniziare forme di blocco radicale della riproduzione della normalità all’interno degli atenei e delle scuole.

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