Pubblichiamo qui di seguito un interessante articolo curato da
InfoFreeFlow Crew dopo
la notizia della condanna ad un anno di prigione dei quattro
responsabili di Pirate Bay, uno dei maggiori siti di scambio di file
via internet al mondo.
Pirate bay è stata dichiarata colpevole.
I responsabili della
baia, sono stati condannati ad un anno di prigione e al pagamento di
una sanzione di 2,7 milioni di euro per complicità nella violazione
di diritti d’autore. Lo ha reso noto un tribunale di Stoccolma. I
quattro sono Fredrik Neij, 30 anni, Gottfrid Svartholm, 24 anni,
Peter Sunde, 30 anni, il fondatore di Pirate Bay, e Carl Lundström,
48 anni, accusato di aver investito dei fondi nelle attività del
sito.
Questa notizia ci pare abbia implicazioni profonde,
ma cerchiamo di sviluppare con ordine i punti del nostro
ragionamento, evidenziandone prima gli aspetti posti sulla punta
dell’iceberg per scendere poi negli abissi del mare magnum della rete
su cui esso si poggia.
A prima vista la sentenza emessa da una
corte di Stoccolma suona come una campana a morto per il P2P, quanto
meno per il forte valore simbolico che assume: se è vero che non vi
saranno conseguenze imeediate è altrettanto vero che viene colpito
uno degli epicentri più nevralgici della “pirateria”, da cui
negli ultimi anni si è propagata una vera e propria emorragia di
informazioni liberate dalla morsa della proprietà intellettuale.
Infatti grazie all’ausilio della “baia” veniva facilitato lo
scambio di file tramite Bittorrent, uno dei protocolli più popolari
in rete, tale da rappresentare una fetta considerevole delle
connessioni che ogni giorno transitano sui network globali.
I
veterani delle battaglie in rete però ricorderanno bene che non si
tratta certo del primo caso in cui la condivisione di saperi
veicolata dai media digitali, subisce colpi apparentemente mortali,
per ritornare in auge e più forte che mai dopo un paio di click. Era
già successo con Napster e ci viene spontaneo credere che succederà
anche in questo caso.
Lo stesso Sunde, da sempre il volto
mediatico di TPB, ha fatto filtrare in anticipo la notizia della
condanna su twitter, invitando alla calma: “Non succederà niente a
TPB, a noi personalmente o al sistema di file sharing. Questo è solo
un teatro per i media".
Viene spontaneo domandarsi se gli
irriverenti bucanieri, non serbino qualche asso nella manica per il
prossimo futuro, magari andando a rimettere mano al progetto in grado
di cifrare l’intero traffico internet chiamato “Transparent
end-to-end encryption for the internet” o IPETEE di cui si era
parlato negli ultimi mesi.
Oltre a questo non può essere
trascurata tra i possibili "effetti collaterali" in questo
quadro, la sempre maggiore consapevolezza degli utenti di tutto il
mondo in merito al ladrocinio e all’impoverimento della fecondazione
culturale di saperi e conoscenze causata dalle major
dell’entertainement e del software.
Consapevolezza,
suffragata dalla capacità delle macchine digitali e della rete di
riprodurre e copiare infinitamente, che ha introdotto
nell’immaginario collettivo il concetto di “zero”,
smontando in modo irreversibile l’idea di una leggittimità nel
conseguimento del profitto sulle opere dell’ingegno.
Consapevolezza
che potrebbe diffondersi ancora più a macchia d’olio data la
popolarità del vascello pirata ( su FaceBook il gruppo “Free The
Pirate Bay”, conta 126 mila iscritti, di cui più di 3.500
aggiuntisi ex novo nella sola giornata di venerdì ) affondato dalla
prima vittoria delle major musicali e non solo: Warner Bros, Sony
Music Entertainment, Emi e Columbia Pictures ma anche il governo
italiano del monopolio di mediaset, quello francese della “dottrina
dei tre schiaffi” e quello inglese, tutti intenti in
quest’ultimo periodo a disegnare dispositivi giuridici che nel
fenomeno del P2P trovano il pretesto per porre in essere una
trasformazione di matrice biopolitica degli ambienti “virtuali”.
L’obbiettivo all’orizzonte è la realizzazione di un vero e proprio
panopticon con cui rendere trasparente e tracciabile qualsiasi
attività dei netizen.
Indipendentemente dalle mosse del
quartetto svedese ( che ricalcando lo stile che lo ha sempre
contraddistinto promette battaglia dichiarando << Come in
tutti i buoni film, l’eroe all’inizio perde ma poi nel finale riesce
a raggiungere una vittoria dai toni epici >> ) e dal
rimescolamento viscerale di umori che provocherà, questa vicenda
ci suggerisce delle considerazioni di carattere più generale in
merito ai destini della rete. Considerazioni che pur trovando la loro
leva d’innesto sulla questione del P2P vorrebbero spingersi ben
oltre, fino allo scenario dell’industria dei
metadati.
Riallacciandoci a quanto detto poche righe sopra
vorremmo partire da un ragionamento di Luca Neri, autore di “La
Baia dei pirati” ( Ed. Cooper ). Si tratta di un libro di cui, pur
non condividendone molte considerazioni, dobbiamo riconoscere
l’intelligenza di fondo e la capacità di proporre immagini efficaci,
all’interno delle quali possiamo rintracciare una delle prime chiavi
con cui leggere l’odierno verdetto della corte di Stoccolma.
Neri
afferma giustamente che in tempi in cui l’economia di scala sembra
sotto molti aspetti essere prossima al declino, la pirateria, intesa
come pratica di copia dell’informazione, appare quanto mai
inarrestabile. E questa consapevolezza non viene certo dalle frange
più estreme dei movimenti di “fight sharing” ma dalla pancia del
mostro che essi si propongono di stringere all’inguine. Fu proprio
Microsoft nel 2002 a farsi carico di questa affermazione, mettendo in
evidenza un dato di fatto: << In un mondo di computer che
possono essere riprogrammati e di network ad alta velocità, la
protezione del copyright viene messa a dura prova >>.
L’avversario, impersonato nel nostro caso dai milioni di utenti che
quotidianamente scambiano materiale tramite l’ausilio del
portale gestito da Anakata & Co non può insomma essere battuto.
Si può tuttalpiù pensare ad un sabotaggio dell’infrastruttura
in cui esso dimora, con l’obbiettivo di sospingerla verso un panorama
più underground, << per renderla meno conveniente e
visibile >>.
Una forma di depotenziamento del
fenomeno insomma, capace di stimolare la crescita di un frammentato
ventaglio di Darknet, basate su comunità private e chiuse, che in
ultima istanza risulterebbero incontrollabili ma allo stesso tempo
sarebbero assai meno temibili in termini di mancato profitto,
considerata anche la ben più limitata quantità di contenuti
disponibili in tali circuiti.
A nostro modo di vedere però
diversi attori stanno giocando questa partita, e la decisione
dei giudici scandinavi potrebbe essere l’elemento in grado di farne
scendere in campo altri ancora, provocando conseguenze più a lungo
termine e di ben altra portata. E non si tratta semplicemente di
individui che hanno a cuore la libera condivisione e lo scambio dei
saperi.
Mimetizzata nel rumore di fondo generato da miliardi di
siti web, portali e social network, sta cominciando a scatenarsi
in modo sempre meno silenzioso una vera e propria guerra fra capitali
e forme di impresa. E la decisione a proposito di TPB potrebbe
giocare un ruolo strategico di primo piano in questo
scenario.
Innanzi tutto la corte svedese contesta ai
pirati di essersi arricchiti tramite i banner pubblicitari ospitati
sul sito.
Un secondo dato, assolutamente centrale e rilevante di
questa sentenza è che essa va a colpire il concetto di mediazione
informazionale dipingendolo come illecito, o come forma di attività
in grado di favorire l’illecito.
Chiunque abbia un minimo di
esperienza sa perfettamente che pirate bay non ha mai ospitato alcun
tipo di file protetto da copyright sui suoi server. La sua unica
funzione è quella di ricerca di un particolare tipo di informazione
( il cosiddetto torrent ) in grado di mettere in comunicazione
più utenti per rendere agevole lo scambio di contenuti presenti sui
loro harddisk.
Attenzione.
Pirate bay non è certo l’unico
portale in grado di compiere questa operazione. Chi altri allora?
Forse una qualche conventicola di oscuri guerriglieri
informatici?
Niente affatto. Stiamo parlando di Google.
Provate
a digitare nella search box del motore di Mountain View il seguente
comando:
filetype:torrent
Oppure
filetype:mp3
Il risultato che vi si porrà di fronte agli
occhi potrebbe stupirvi: esattamente come TPB, lo stesso Google può
permettervi l’accesso a dei torrent o addirittura a mp3, magari
coperti da copyright ( pur non trovandosi questi sui server di
Mountain View ).
E infatti buona parte della difesa della baia
trovava la sua ragion d’essere proprio in questo dato tecnico:
nessuna violazione del copyright viene di fatto messa in atto in
quanto gli utenti utilizzano una piattaforma di ricerca che in nessun
modo ospita questi contenuti. Si tratta insomma di un’attività
paragonabile a quella dei motori di ricerca o a quella di un
forum sul quale gli utenti potevano trovare informazioni su come e
dove scaricare questi contenuti.
È consequenziale allora
ritenere che questa sentenza, se avesse valore di precedente
giuridico sul piano internazionale potrebbe diventare l’ariete di
sfondamento nel contrattacco della "vecchia" industria dei
contenuti contro la "nuova" industria della mediazione
informativa. Perché? Per capirlo facciamo qualche passo
indietro,
Carlo Formenti in “Cyber Soviet” ha giustamente
sottolineato come Google sia un attore nient’affatto
disinteressato nella lotta contro la “vecchia proprietà
intellettuale”. Ippolità ci ha ben ricordato più volte che
Big G. negli anni ha basato buona parte delle sue strategie
commerciali investendo sul linguggio capace di creare comunità,
cooperazione e scambio di saperi che pur essendo strettamente
controllato da vita ad una fruttuosa economia relazionale.
Più
in generale buona parte degli introiti dell’industria dei metadati (
il cosiddetto “Web 2.0”) derivano dalle attività di remixing di
oggetti digitali esistenti, rese possibili dal lavoro volontario
degli utenti, i quali mettendo in campo la loro creatività intessono
relazioni sociali costruite in una miriade di comunità
diverse.
Quest’attività genera un variegato spettro informativo
che è oggetto dei processi di data-mining il cui obbiettivo ultimo è
quello di estrarne senso e valore. Un valore che spesso si
concretizza e viene catturato dai proprietari delle grosse isole di
aggregazione dati, attraverso attività di advertising on-line ( o
più semplicemente pubblicità mirata).
Per determinati settori
dell’IT, Google in primis o le sue propaggini come Youtube e
Google News , tale meccanismo raggiunge l’apice della sua efficacia
se oliato da un regime di proprietà intellettuale che sia quanto
meno flessibile ( o che non consideri certo come un crimine il fatto
di reindirizzare l’utente sui contenuti immessi in rete da altri ).
Inoltre tale flessibilità è imprescindibile per gli attori
dell’info-mercato: se la possibilità di manipolazione dei bit da
parte degli utenti subisse un forte giro di vite, rischierebbe di
venir meno anche quella retorica “democratica” di partecipazione
in rete su cui i social network hanno fondato quell’immaginario di
“bontà”, fiducia ed informalità che sta alla base del
business.
Dato che buona parte del remixing di oggetti digitali
pesca a piene mani da forme di sapere il cui valore è stato
recintato legalmente tramite l’ausilio di copyright e simili, si
capisce come questa danza sfrenata di informazioni sia stata
detonatore di forti conflitti in seno al capitale stesso.
"Se
qualcuno decidesse di denunciare Google – punzecchia Sunde
proiettandosi nel tradizionale paragone tra la Baia e un motore di
ricerca – sarebbe veramente interessante: andate e denunciate
Google".
Di fatto sta già avvenendo: le prime
“divergenze” tra i soggetti interessati hanno cominciato a
manifestarsi in modo meno latente negli ultimi mesi.
È di marzo
la notizia che più che mai sembra essere una vera e propria
dichiarazione di guerra tra l’industria dell’informazione
“open” e quella “closed”.
Con una mossa del tutto
inaspettata Youtube ha dichiarato non sostenibile l’accordo
proposto e precedentemente sottoscritto con la Performing Right
Society, società che raccoglie i proventi dei diritti da destinare
ad etichette, artisti e compositori, congelando così dal network
brittannico tutti i video tutelati da PRS.
L’accordo, scrive
Vincenzo Gentile su PI, <<prevedeva la diffusione di
contenuti premium relativi a band e artisti britannici in maniera
trasversale, passando da realtà affermate alle novità emergenti
sulla scena. I rapporti tra le due società si sarebbero incrinati
proprio in fase di negoziazione di un nuovo contratto: secondo
YouTube la proposta fatta da PRS sarebbe stata del tutto al di fuori
delle possibilità e delle aspettative economiche dell’azienda,
che ha quindi deciso di congelare ogni singolo video frutto del
precedente accordo in attesa di una risoluzione>>.
É
seguita dopo pochi giorni una netta dichiarazione di un altro “mostro
sacro” della vecchia industria dei contenuti, l’Associated Press,
che si è scagliata contro Google, accusandolo di violazione del
copyright per fini commerciali e promettendo battaglie legali.
L’accusa è quella di utilizzare come cavallo di troia per la
pubblicità le news prodotte dalle testate globali, senza dare nulla
in cambio.
Anche solo guardando a questi due casi, è
abbastanza intuibile come la sentenza di oggi avrà probabilmente
ripercussioni su questi ambiti e dinamiche di mercato, il cui
caposaldo è proprio la mediazione informazionale. Non è
difficile immaginare che ne possa scaturire un riassestamento degli
equilibri in rete, che hanno visto negli ultimi anni l’attitudine di
Google a porsi come mediatore globale nel reperimento di dati ed
informazioni, e da cui è derivata una posizione di chiara
subordinazione della vecchia élite della comunicazione broadcast
old-style.
È nostra opinione che ci troviamo di fronte ad uno
scenario in cui una serie di conflitti verranno messi in campo, non
con l’obbiettivo di andare ad una lunga e sanguinosa ( economicamente
parlando ) guerra da concludersi con l’eliminazione di una delle due
parti in causa, ma con l’intento strategico di trovare un accordo
per l’integrazione tra business diversi.
Le conseguenze
di tale interazione potrebbero avere risvolti drammatci, sopratutto
per le libertà degli utenti in rete: proprio l’AP nella sua
sortita pubblica di cui parlavamo poc’anzi ed in cui è stata
lanciata contro GoogleNews l’accusa di parassitismo, ha paventato la
possibilità che l‘informazione oltre a dover passare per una
negoziazione delle licenze, debba essere ingabbiata e tracciata al
fine consentire il godimento dei diritti di proprietà intellettuale
verso coloro che li detengono.
La guerra insomma è
appena cominciata e presto infurierà su molti fronti.