No
Gelmini: non è che l’inizio!!
Dall’inclusione
differenziale a nuovi dispositivi di esclusione, una sola risposta:
Rivolta!
La storia dell’università
italiana è una storia di spinte contradditorie, ambivalenze,
fatta di ricchezza dei movimenti che l’hanno attraversata e miseria
di una casta baronale che da sempre cerca di tenerla in pugno, fatta
dal costante tentativo di renderla una istituzione funzionale alla
formazione di studenti/forza-lavoro disciplinata da integrare
nel mercato come merce, e rifiuto di questa alienazione, di
riforme
e conflitti.
Verso la fine degli anni settanta
l’università plasmava la classe dirigente del paese, era
un’istituzione d’elite che si basava su d’un sistema formativo a
compartimenti stagni di stampo gentiliano, con da una parte il canale
liceo-università e dall’altra quello scuola
professionale-fabbrica. L’ondata di rivolta che s’aggirò per
il globo tra il ’66 e il ’68 impose la rottura di questo
dispositivo, dando vita ad una università di massa.
Durante quello che viene definito il “Decennio Rosso ’68-’78”
anche i figli degli operai poterono accedere ai livelli superiori
d’istruzione; il piano capitalista rispose con una
ristrutturazione dei meccanismi produttivi, introducendo per la prima
volta dosi ingenti di precarietà, lavoro nero, e
disoccupazione intellettuale. Quando il ciclo di lotte era prossimo
alla sconfitta, il ministro Malfatti fece una circolare per cercare
di ridimensionare le conquiste di quegli anni, ma scatenò la
ribellione di centinaia di migliaia di studenti e proletari
metropolitani che occuparono facoltà e i primi centri sociali
in tutta Italia, subendo una durissima repressione da parte di tutto
l’arco istituzionale, dal P.c.i. alla polizia, con la cacciata di
Lama dalla Sapienza a Roma, la morte di Giorgiana Masi e a
Bologna dello studente Francesco Lorusso. Ma la circolare venne
bloccata, e nonostante il periodo buio dell’individualismo esasperato
nell’instaurantesi fase neoliberista, bisogna attendere fino
al cambio di fase geopolitica globale per un nuovo attacco alle
esistenze di studenti e precari, l’89 della riforma Ruberti; ma anche
questa volta un movimento forte si contrappose, quello che passerà
alla storia come movimento della Pantera.
Con la caduta dell’Ur.s.s. inizia la
transizione verso l’ipermodernità, che porta con sé
nuovi modelli produttivi delocalizzati, massiccia precarietà
che si estende oltre il rapporto lavorativo fino a toccare tutta
l’esistenza, guerra globale permanente ecc.. L’università
subisce le stesse linee di trasformazione delle altre istituzioni,
secondo direttive trasnazionali e processi di diffusione della
sovranità e del controllo sia verso il basso (autonomia degli
atenei, università strettamente intrecciata con il tessuto
metropolitano) che verso l’alto (modello statunitense e direttive
dell’U.e., con in particolare il Bologna
Process), e si funzionalizza e modella al mercato
capitalistico come palestra di forza lavoro precaria in formazione,
tramite parcellizzazione dei saperi, creditizzazione, istituzione del
3+2 (Riforma Zecchino-Berlinguer, del primo governo Prodi).
Il mercato del lavoro dei paesi a
capitalismo più avanzato, richiede un’integrazione di forza
lavoro manuale ultrasfruttata, massificata, a livello globale, con
linee di etnicizzazione estremamente marcate, e forza-lavoro
cognitiva, in perenne formazione, dove vengono messi a profitto
sentimenti, umori, relazioni sociali.. L’università fornisce
il metodo per affinare lo strumento privilegiato delle nuove
categorie lavorative, il cervello-macchina, plasmando le
capacità cognitive come computer, abili a incamerare e rendere
operativi saperi parziali, acritici, quindi immediatamente
espropriabili dal capitale.
Nel 2005 il secondo governo Berlusconi
prosegue questo cammino con la riforma Moratti, che attacca
l’università (con il famoso modello a Y) e la scuola
superiore: anche in questo caso si sviluppò un forte movimento
di studenti e precari, che occupò le facoltà in tutta
Italia e a Bologna ebbe la capacità di estendere le proprie
rivendicazioni, arrivando a scontrarsi con la polizia sotto palazzo
d’Accursio per difendere le occupazioni di case e occupando treni per
andare alla manifestazione nazionale a Roma. Quest’ultima vide la
partecipazione di 100.000 student* e precar* da tutta Italia, che
assediarono il Parlamento nel giorno di approvazione della legge, ma
non furono in grado di fare un salto di qualità
nell’attaccarlo direttamente, e la legge passò.
Tuttavia un dato costante di questi
ultimi anni è uno stato di crisi gestionale
dell’università, che di fatto impedisce l’applicabilità
delle riforme e non è riuscito a rendere pienamente modulato
sul reale il piano di potere che tenta di dividere la classe
secondo meccanismi di inclusione differenziale, con blocchi
all’accesso per ogni passaggio nella formazione secondo un modello
piramidale.
Prendendo atto di questo, la Riforma
Gelmini tenta un nuovo passo gravissimo, investendo tutto il
ciclo scolastico a partire dalle elementari, con tagli estremamente
incisivi, che prefigurano un ritorno a modelli d’esclusione
tout court, con tasse altissime anche solo per accedere alla
triennale e divisione in università d’elite e altre fortemente
dequalificate.
Ora come sempre, solo nella capacità
di creazione di risposte dal basso sta la possibilità
di ribaltare la situazione, per lottare e portare conflitto nella
banlieu diffusa, per una università delle passioni
forti, dei saperi antagonisti, della co-spirazione
e della sovversione.
Ci aspetta un autunno caldissimo, con
grandi spazi nella crisi della rappresentanza per i movimenti
autonomi dal basso di realizzare i propri obbiettivi, di scardinare
i dispositivi della precarietà sociale d’esistenza,
tramite l’appropriazione diretta di reddito, tempi, spazi e
saperi, in una composizione di classe meticcia che
dall’università del rifiuto del sapere precario si intersechi
nei nodi della metropoli, con
linguaggi pulsanti desiderio e conflitto.